i dividendi delle guerre

I dividendi delle guerre che hanno aperto il
XXI secolo (in particolare Afghanistan, Iraq e «guerra al terrore»)
stanno progressivamente distribuendosi tra le imprese militari e
high-tech dei Paesi che quelle guerre hanno promosso o appoggiato.
Paradossalmente, si stanno distribuendo anche sui complessi
militari-industriali di alcuni Paesi che quelle guerre hanno in modo
più o meno esplicito avversate.
In questi ultimi anni significative
tendenze al rialzo mostrano sia le spese globali per la Difesa (nel
2008, dati Sipri, circa 1.500 miliardi di dollari e nel 2007 1.339
miliardi di dollari, con un incremento reale del 45% tra 2007 e 1998),
sia le esportazioni effettive (che hanno raggiunto i 65 miliardi di
dollari nel 2007 e sfonderanno probabilmente il tetto dei 70 miliardi
quando saranno disponibili i dati completi del 2008).
Tra quelli
messi in moto dall’effetto-guerre, in particolare dal tipo di guerre
combattute, possiamo identificare cinque cicli principali, relativi sia
alla produzione di armamenti che all’esportazione: un ciclo
prevalentemente relativo alle potenze che hanno promosso i conflitti;
un ciclo relativo alle potenze che ne sono rimaste fuori; un ciclo dei
trasferimenti ai mercati di secondo livello; un ciclo delle armi
civili; un ciclo dell’illegale derivato dai precedenti.
Washington,
Londra ed Alleati. Nei paesi promotori dei conflitti, in Iraq e
Afghanistan in particolare, gli elementi di spinta più ovvii sono stati
il rimpiazzo degli armamenti consumati, la spinta al loro miglioramento
tecnico, l’accresciuta esportabilitá dei sistemi che hanno dato buona
prova sul campo, l’accresciuta importanza dei servizi logistici, di
sicurezza, di costruzione militare e civile. Di particolare importanza
per la successiva esportabilità delle armi prodotte da tali Paesi è il
fatto che i sistemi sono stati provati su terreni di estrema
difficoltà, sia da un punto di vista geografico e climatico, sia da un
punto di vista logistico. La selezione che quelle guerre hanno operato
e stanno operando tra sistemi avanzati sulla carta e sistemi realmente
efficaci, tra logistiche che funzionano e logistiche che non
funzionano, ha trasferito rapidamente i suoi effetti venefici sui
mercati internazionali. Gli esiti principali di tale ciclo si stanno
trasferendo sui volumi e la qualitá delle esportazioni verso i mercati
più ricchi, nel caso i mercati Nato, Mediorientali,
Asiatico-Meridionali. Ancora in tale ciclo, la natura delle guerre
recenti maggiori ha poi enfatizzato il ruolo delle compagnie militari
private, utilizzate nei servizi di sicurezza alla persona e alle
strutture, nelle carceri, nell’intelligence, nelle operazioni sporche
di eliminazione «non-convenzionale» dell’avversario o contro la
popolazione civile.
Al maggio del 2009, il personale privato sotto
contratto della Difesa statunitense era pari in Iraq a 148.050 persone,
di cui circa 88.000 addetti alla sicurezza e al supporto delle basi
(sul totale, ben 70.875 di nazionalità non statunitense, a fronte di
140.000 soldati statunitensi) e pari in Afghanistan a 71.755 persone,
di cui 4.373 addetti alla sicurezza (sul totale ben 60.563 di
nazionalità afghana, a fronte di 35.000 soldati statunitensi)
Mosca, Pechino, Parigi e gli altri. Tra le potenze che sono rimaste
fuori dai conflitti (almeno inizialmente e per la Russia solo
parzialmente), la necessità di tenere il passo con le potenze
belligeranti e con i loro sistemi provati sul campo ha da un lato reso
politicamete più forti le richieste dei rispettivi ministeri della
Difesa per nuovi sistemi d’arma e per ristrutturazioni dell’apparato
produttivo e di esportazione militare, con enfasi sulla mobilità e
sulle forze speciali di rapido intervento. A tale parte «interna» se ne
è affiancata un’altra, relativa alla proiezione esterna della
produzione militare. In numerosi Paesi del «Sud» del mondo, infatti, le
guerre promosse da Stati Uniti e Regno Unito hanno creato una corrente
di solida avversione nei confronti di Washington e di Londra, favorendo
in essi la crescita d’influenza dell’offerta militare di altre
metropoli – Mosca, Pechino, in minor misura Parigi, Minsk, Brasilia,
Pretoria, tra altre. La Russia, ad esempio, ha consolidato il suo
settore militare-industriale in circa venti complessi maggiori e il
controllo dell’export di armi è tornato solidamente nelle mani
dell’organizzazione statale Rosoboronexport, con 8,3 miliardi di
dollari di armi vendute nel 2008.
I mercati di secondo livello. La
spinta all’adeguamento verso l’alto dei sistemi d’arma in tutte le
maggiori potenze produttrici ha «liberato» progressivamente ingenti
quantità di sistemi ritenuti più arretrati, che stanno andando ad
alimentare i mercati di secondo livello e «grigi». Chi non può
permettersi di accedere ai mercati di primo livello, si sta dotando di
quanto di meglio possano offrire gli stock di secondo livello. Paesi
che hanno ambizioni egemoniche regionali ma risorse limitate possono
ora accedere a sistemi d’arma ancora micidiali, ma non più in dotazione
agli eserciti di punta. La possibilità di introdurre in tali sistemi
miglioramenti a basso costo è poi assicurata da Paesi con notevole
know-how militare – come Bulgaria, Israele, Repubblica Ceca, Repubblica
Slovacca, Ukraina – che si sono specializzati nel servizio di quel tipo
di clientela. Ad esempio, ciò che rimaneva degli ingenti stock di
armamenti accumulati dalle parti belligeranti nei conflitti balcanici
degli anni 90 è poi migrato ufficialmente o clandestinamente verso
l’Afghanistan, l’Iraq, la Somalia, il Rwanda la Republica Democratica
del Congo e l’Uganda.
Le armi «civili». Nelle aree «calde» del
mondo, sia aree di conflitto, sia aree loro vicine, si stanno
verificando vere e proprie esplosioni di passione venatoria e di tiro
al piattello. All’ombra di autentici cacciatori e maniaci dei poligoni
di tiro fioriscono flussi considerevoli di doppiette, fucili
semi-automatici, pistole, cartucce, proiettili, canne d’arma, non
militari o demilitarizzati, ma con la deplorevole tendenza a finire
prima o poi nelle mani di combattenti «irregolari» ed eserciti privati.
Se può bastare un dato, nel 2008 l’Italia ha esportato nel mondo
pistole e fucili «civili» per 310 milioni di dollari.
Il ciclo
dell’illegale. Accanto e spesso sovrapposto al percorso cosiddetto
legale, un ultimo ciclo prodotto dall’effetto-guerre riguarda la
crescita dei mercati grigi o illegali, in realtà per la più parte
mercati che vengono lasciati esistere perché servono variamente le
parti meno presentabili delle politiche estere delle potenze in
competizione. Le cronache recenti ci riportano traffici d’ogni tipo
promossi da membri degli apparati militari, delle compagnie militari
private, dei circoli di trafficanti di armi e dei fornitori di servizi
logistici. In tali mercati – benchè vi si possa trovare di tutto –
prevalgono le armi di fanteria, le dotazioni per le forze speciali, le
armi d’elezione della guerriglia, i sistemi anti-aerei e anti-carro
portabili dalla persona. L’origine di tali armi non è misteriosa, tutti
sanno da chi e come i trafficanti che si muovono su questi mercati
hanno avuto quelle armi.
Il ciclo delle guerre e i cicli delle armi
si alimentano a vicenda, producendo da un lato enormi dividendi
economici e politici e dall’altro nuovi scenari di crisi nella lotta
per l’egemonia. Quando la sinistra si sveglierà dal suo letargo
ventennale, potrebbe trovare una divisa ad attenderla.
Sergio Finardi

da indymedia emiliaromagna