e da loro chi ci difende?

Riporto sotto parte di un articolo del secolo decimo nono del 12 febbraio 2009:

Sono
cominciati gli interrogatori delle undici persone, tra le quali due
poliziotti, colpite ieri da provvedimenti cautelari per spaccio di
cocaina. Questa mattina il giudice per le indagini preliminari Daniela
Faraggi, ha sentito tre degli indagati: Enrico Sievi, Luca Schenone e
Antonino Sanso. Alcuni si sono avvalsi della facoltà di non rispondere,
mentre altri hanno confermato quanto emerso dalle indagini. Domani
mattina, verranno sentiti i due poliziotti fermati nell’ambito
dell’inchiesta, Stefano Picasso e Morgan Mele, e le altre persone.
L’inchiesta è partita nel 2007, dopo l’ascolto di alcune telefonate
intercettate nell’ambito dell’inchiesta che vedeva coinvolto un altro
poliziotto per violenza sessuale su alcune prostitute nelle guardine
della questura. Lo stesso poliziotto, nel luglio scorso, era stato
condannato a tre anni e due mesi di reclusione per le violenze nella
caserma di Bolzaneto.

LA VICENDA

Due agenti di polizia, originari di Genova, ma in servizio nelle
questure di Lodi e Asti, sono stati arrestati all’alba di ieri con
l’accusa di avere smerciato cocaina. Si tratta di Stefano Picasso e
Morgan Mele, di 26 e 27 anni, indagati anche per truffa, per aver
simulato di esser malati allo scopo di aggirare i controlli e non
lavorare. Con loro sono finiti in carcere, con le stesse accuse, altre
quattro persone, tutti giovani di varia estrazione. Si tratta di Luca
Schenone (26 anni), accusato di essere il fornitore della “compagnia”,
Enrico Sievi (26), Antonino Sanzo (31), e Fabrizio Annigoni (23). Una
settima persona, Giacomo Carpaneto (28), è stata arrestata e si trova
ai domiciliari. Ad altri quattro giovani, di età compresa tra i venti e
i trent’anni, è stato imposto l’obbligo di dimora.

Le intercettazioni inguaiano un’altra trentina di poliziotti, molti
dei quali tuttora in servizio a Genova. Tutti segnalati alla prefettura
come consumatori abituali di cocaina. In almeno due delle telefonate
ascoltate dagli investigatori, lo stupefacente sarebbe stato sniffato
durante il servizio.

Fra le telefonate, ce n’è una, datata 6 ottobre 2007, in cui Mele
parla con voce orgogliosa a un’amica: «Io sono uno spacciatore, prima
che un poliziotto». Mele non sa che ad ascoltarlo, in gran segreto, ci
sono i colleghi che ieri mattina lo hanno arrestato.

Le indagini sono state condotte dal procuratore capo Francesco Lalla
e dal suo sostituto, Vittorio Ranieri Miniati, e affidate al nucleo di
polizia giudiziaria del tribunale di Genova, diretto dal vice questore
Luca Capurro. Nell’arco di due anni di lavoro, particolarmente
delicato, si sono avvicendati investigatori della Finanza e della
polizia di Stato, coordinati dal maresciallo Luca Chiappella e
dall’ispettore Sandro Banchero. L’indagine è partita dalle
intercettazioni relative al caso delle violenze sessuali ai danni di
prostitute romene, avvenute nelle guardine della questura, per le quali
un altro poliziotto è andato a giudizio.

Secondo gli inquirenti, lo spaccio avveniva in occasione di feste
private, anche un addio al celibato, organizzate in case o in locali di
Genova e del Tigullio; il giro di cocaina venduta e consumata sarebbe
pari a 200 grammi alla settimana.

Questa non è la prima e non sarà certo l’ultima volta che si sente parlare di cose simili, chiaramente questi fatti non hanno un gran risalto mediatico, salvo rarissimi casi. 

Lo vorrei dedicare a chi crede che il "marcio" venga da fuori, sia straniero e senza permesso di soggiorno. 

Quelli dell’articolo, invece, sono autorizzati, armati e in divisa (e "lavorano" per la nostra "sicurezza"!!)..

 

 

 

ECCO IL NUOVO A-CARPI

 

 

 Finalmente, dopo durissime giornate di lavoro, esce dalla Libera
Fucina di Carpi il nuovissimo numero di A-Carpi!! Chiunque voglia
collaborare per il prossimo numero con articoli, materiali, opinioni,
può comunicarcelo ai nostri indirizzi. Scaricalo, stampalo e
diffondilo!!

Ecco il Link:

acarpi. x blog.pdf

-Lo trovi anche il sabato pomeriggio sul nostro banchetto sotto i portici-

foibe

 

Le foibe:il nazionalfascismo e il nazionalcomunismo a confronto.

 A distanza di più di sessant’anni l’unica differenza che vedo è che i comunisti hanno almeno il pudore di non voler ricordare.

« Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. […] I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani »
    (Benito Mussolini, discorso tenuto a Pola il 24 settembre 1920)


La situazione degli slavi si deteriorò con l’avvento al potere del fascismo, nel 1922. Fu infatti varata in tutta Italia una politica di assimilazione delle minoranze etniche e nazionali, che prevedeva l’italianizzazione di nomi e toponimi, la chiusura delle scuole slovene e croate e il divieto dell’uso della lingua straniera in pubblico. Simili politiche di assimilazione forzata erano all’epoca assai comuni, ed erano applicate, fra gli altri, anche da paesi democratici (come Francia e Regno Unito). Da notare che furono adottate dalla stessa Jugoslavia, dove si verificarono anche episodi di repressione violenta.

L’azione del governo fascista annullò l’autonomia culturale e linguistica di cui le popolazioni slave avevano ampiamente goduto durante la dominazione asburgica e incrementò i sentimenti di inimicizia nei confronti dell’Italia.

Lo Stato italiano in un primo tempo espresse l’intenzione di rispettare le minoranze etniche, ma questa volontà si scontrò ben presto con il nascente fascismo, che proprio in Venezia Giulia conobbe alcuni dei suoi episodi più violenti (il cosiddetto "fascismo di frontiera"), sia di matrice terrorista, sia legalitario e culturale, considerati dagli squadristi come due facce della stessa medaglia. L’episodio più noto fu l’incendio del Narodni dom, la "Casa nazionale slovena" a Trieste, compiuto da squadristi fascisti, come ritorsione ad incidenti antiitaliani avvenuti a Spalato.

Nell’aprile del 1941 l’Italia partecipò all’attacco dell’Asse contro la Iugoslavia, in seguito al colpo di stato che aveva spodestato il governo di Belgrado il 25 marzo 1941 instaurando una giunta filo-inglese e filo-sovietica. L’Italia si annesse una grande parte della Slovenia (dove fu costituita la provincia di Lubiana), la Dalmazia settentrionale e le Bocche di Cattaro.
Inizialmente tranquilla per gli italiani, la situazione nei territori ex iugoslavi annessi, divenne incandescente dopo l’aggressione tedesca all’URSS il 22 giugno 1941, allorché le cellule comuniste "dormienti" in tutta Europa vennero scatenate da Stalin contro l’ex alleato dell’Asse. In tutta la Jugoslavia, allora, iniziò una feroce guerriglia – ben presto degenerata in guerra civile – che coinvolse le truppe italiane in un crescendo di violenze e atrocità reciproche. La repressione italiana fu pesante e in molti casi furono commessi crimini di guerra.

 

 

Un graduato italiano colpisce un ostaggio condotto alla fucilazione (dall’Archivio della Fondazione Istituto per la storia dell’età contemporanea – Isec Onlus)

In Dalmazia venne da subito instaurata una politica di italianizzazione forzata, spesso ottusa e maldestra, che esasperò i rapporti con la popolazione, suscitando la riprovazione degli stessi dalmati italiani.
Per reprimere la guerriglia furono istituiti campi di concentramento in cui furono reclusi elementi slavi giudicati "sediziosi". Tra questi si ricordano quelli di Arbe e di Gonars.

 

 

Slovenia 1942 – Il plotone di esecuzione composto da militari italiani e da belagardisti (Guardia bianca slovena) è pronto per l’esecuzione

L’8 settembre 1943 con l’armistizio tra Italia e Alleati, si verifica il collasso del Regio Esercito. Il 9 settembre le truppe tedesche entrarono a Trieste. In questo periodo (13 settembre 1943) si proclamò il "distacco" dell’Istria dall’Italia e l’annessione alla Jugoslavia. Il 29 settembre 1943 venne istituito il Comitato esecutivo provvisorio di liberazione dell’Istria.

Parallelamente al consolidamento del controllo germanico sul capoluogo giuliano, su Pola e su Fiume, i partigiani occuparono buona parte della penisola istriana, mantenendo le proprie posizioni per circa un mese. Improvvisati tribunali popolari, che rispondevano ai partigiani dei Comitati popolari di liberazione emisero centinaia di condanne a morte. Le vittime furono rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, oppositori politici, ma anche semplici personaggi in vista della comunità italiana e potenziali nemici del futuro Stato comunista jugoslavo che s’intendeva creare. A Rovigno il Comitato rivoluzionario compilò una lista contenente i nomi dei fascisti, ma anche di persone estranee al partito ma rappresentanti lo stato italiano (fascista n.d.r.), i quali vennero arrestati e condotti a Pisino. In tale località furono condannati e giustiziati assieme ad altri fascisti italiani e croati. La maggioranza dei condannati fu scaraventata nelle foibe o nelle miniere di bauxite, alcuni mentre erano ancora in vita.

In Dalmazia, il 10 settembre, mentre Zara veniva presidiata dai tedeschi, a Spalato ed in altri centri entravano i partigiani. Vi rimasero sino al 26 settembre, sostenendo una battaglia difensiva per impedire la presa della città da parte dei tedeschi. Mentre si svolgevano quei 16 giorni di lotta, fra Spalato e Traù i partigiani soppressero 134 italiani, compresi agenti di pubblica sicurezza, carabinieri, guardie carcerarie ed alcuni civili.

Secondo le stime più attendibili, le vittime del periodo settembre-ottobre 1943 nella Venezia Giulia, si aggirano sulle 600-800 persone.

Per assumere il controllo della Venezia Giulia, della provincia di Lubiana e della i Dalmazia i tedeschi lanciarono l’Operazione Nubifragio (Operazione Wolkenbruch). L’offensiva ebbe inizio nella notte del 2 ottobre 1943.
I reparti partigiani furono annientati e costretti alla fuga verso l’interno. Nuclei della resistenza cercarono di rallentare i tedeschi con imboscate, colpi di mano e agguati. Questi reagirono colpendo la popolazione civile, anche di etnia italiana, con fucilazioni indiscriminate, violenze, incendi di villaggi e saccheggi. L’operazione Wolkenbruch si concluse il 9 ottobre con la conquista di Rovigno. Il sistematico rastrellamento dell’Istria andò avanti per tutto il mese di ottobre, furono colpiti con brutalità non solo il movimento partigiano, ma anche civili di tutte le etnie. Le vittime (partigiani, fiancheggiatori, ma soprattutto civili innocenti) furono circa 2.500. Il territorio di Gorizia, fu teatro di un’eroica resistenza all’invasione nazista.

Le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana furono di fatto annesse al Terzo Reich, andando a costituire la "Zona d’operazioni del Litorale adriatico". Per un breve periodo (1943-1945) fu posta sotto l’amministrazione militare tedesca (di fatto un’annessione) e inclusa nel Governatorato dell’ Adriatisches Küstenland ("Litorale Adriatico") che a sua volta venne posto sotto il diretto controllo di Friedrich Rainer, Gauleiter della Carinzia.

Con l’espulsione dei partigiani divenne possibile eseguire varie ispezioni nella foibe, dove furono rinvenuti i resti di numerosi cadaveri. Il compito di ispezionare le foibe fu affidato al maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich di Pola, che condusse l’indagini da ottobre a dicembre del 1943.

La propaganda fascista diede ampio risalto a questi ritrovamenti, che suscitarono una forte impressione. Fu pertanto in questo periodo che il concetto di foiba fu associato agli eccidi. Paradossalmente, l’enfasi data ai ritrovamenti alimentò il mito del "barbaro slavo", contribuendo a creare il clima di terrore che favorì il successivo esodo.

Il massacro delle foibe fu allo stesso tempo una conseguenza dei rancori sviluppatisi fra contrapposte nazionalità e uno strumento di repressione violenta operato da un regime antidemocratico.

Tale punto di vista è condiviso anche dalla "Commissione storico-culturale italo-slovena", istituita nel 1993. Nella relazione finale, edita nel 2000, si afferma infatti:
    «  Paragrafo 11 – Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani. »

il processo

Nel 1992 è stato istituito un procedimento giudiziario in Italia contro alcuni dei responsabili dei massacri ancora in vita. Tali inchieste furono giustificate dal fatto che all’epoca la Venezia Giulia era ancora ufficialmente sotto sovranità italiana; inoltre i crimini di guerra non sono soggetti a prescrizione. Partite dalla denuncia di Nidia Cernecca, figlia di un infoibato, videro come principali imputati i croati Oscar Piskulic e Ivan Motika. L’inchiesta fu istituita dal pubblico ministero Giuseppe Pittitto. Nel 1997 diversi parlamentari sollecitarono il governo affinché avanzasse richiesta di estradizione per alcuni degli imputati. Il procedimento si è concluso con un nulla di fatto: nel 2004 fu infatti negata la competenza territoriale dei magistrati italiani.

 curiosità


Il gerarca fascista Giuseppe Cobolli Gigli  proclamò: "La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria".

Lo storico Raoul Pupo non esclude a priori l’uso delle foibe da parte dei fascisti, ma non la ritiene validamente documentata, e osserva che il regime fascista non aveva alcun motivo per nascondere le proprie condanne a morte, e che, viceversa, fece di tutto per pubblicizzare le esecuzioni promulgate dal Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.In ogni caso non appare esserci alcuna nesso diretto fra il possibile uso delle foibe da parte dei fascisti e il loro successivo uso da parte dei partigiani titini.

stampa del terrore e CMB devastatrice

 04/02/09

Il giudizio sul terrorizzante articolo
che vuol far passare una bottiglia di whisky (altamente infiammabile)
per un ordigno rudimentale (per il fegato forse) come un attentato,
lo lascio al lettore.

Comunque, se fosse successo (?) quello
che il titolo del giornale dice, sarebbe perché l’ingordigia C.M.B.
ha raggiunto, soprattutto a Carpi, livelli esasperanti, complice
anche la crisi del capitalismo.

Sotto gli occhi di tutti è la logica
del saccheggio del territorio da parte degli speculatori supportati
dalle politiche del comune.

Sarò malizioso pensando al fratello
del sindaco (direttore affari legali CMB) ma pare spropositato il
rapporto fra aumento demografico (60.614 abitanti nel 1986, 65.837 al
31/12/’07) e la cementificazione abitativa.

Anche in questo caso il capitalismo sa
riciclarsi speculando sul territorio, fonte esauribile e bene della
collettività, con le berlusconiane logiche del profitto di pochi
alle spalle di tutti. La periferia di Carpi è un unico cantiere a
cielo aperto e, per assurdo, proprio le lobby del cemento dicono che
aumentando l’offerta calano i prezzi (!).

Eppure, soprattutto il centro storico,
è un susseguirsi di agenzie immobiliari (dove cazzo sono i
giustizieri leghisti a preservare il centro storico da attività
commerciali DETURPANTI, come a Lucca?); non eravamo la città della
moda?

Quindi finchè la gente non si opporrà
allo strapotere dei devastatori loro certo non si fermeranno, per
ciò, mentre provate ad attraversare l’ingorgo sotto casa, date pure
la colpa all’immigrato od alla mancanza di valori se vi fa sentire
meglio. Nel frattempo, gli onesti imprenditori (quelli che i valori
li conoscono), fra telecamere e poliziotti, vi fottono salute e
libertà, quindi qualità della vita.

visualizza l’articolo de "l’informazione"

ma sparati

38 MORTI (umane) IN UN ANNO PER LA
CACCIA

Termina il 31 gennaio la stagione venatoria 2008-2009.
Come al solito vi è stata una sequenza impressionante di fatti di
sangue o altri incidenti di caccia: 36 morti e 71 feriti per episodi
correlati all’impiego di armi da caccia o all’esercizio venatorio
(circa la metà nel corso di battute di caccia al cinghiale); 2 morti
e 6 feriti tra gente comune coinvolta ,anche se non stava praticando
la caccia. In totale 38 morti e 79 feriti.                                                    

Nel frattempo in Commissione
Territorio/Ambiente del Senato si sta elaborando il testo unificato
di una decina di proposte di deregulation
per aumentare i periodi di caccia, depenalizzare sia l’uccisione di
specie protette, sia l’uso dei bocconi avvelenati e lo sparo dagli
autoveicoli, e per incrementare la mobilità interregionale dei
cacciatori di animali migratori. Tali proposte prevedono anche il
permesso ai minorenni di andare a caccia e la limitazione della
vigilanza venatoria alle sole zone protette (Lega Abolizione Caccia,
Ufficio Stampa, 30 gennaio).