la giustizia della Repubblica italiana nata dalla Resistenza

La
giustizia della Repubblica italiana nata dalla Resistenza

Dal
racconto di Belgrado Pedrini tratto da “ noi fummo i ribelli, noi
fummo i predoni…” schegge autobiografiche di uomini contro.

La
mia storia è la storia dei miei compagni ed è simile a quella di
molti altri partigiani finiti nelle patrie galere all’ indomani
della Liberazione. Erano finiti i febbrili giorni della speranza,
delle rise e delle gioie. Ci ritrovammo al punto di partenza. Ossia,
sbandati e senza soldi, non al riparo dai colpi della sorte.
Così decidemmo di continuare a lottare, come fatto
negli anni precedenti, contro padroni vecchi e nuovi, senza
esclusione di colpi.
Per coloro che fino al
giorno prima della presa del potere ci chiamavano compagni tornammo
ad essere banditi.

Nelle
prigioni della repubblica democratica italiana, tra i molti carcerati
rinchiusi, trovai dei compagni di fede, dei compagni di lotta e,
soprattutto, ex partigiani anarchici come me. Di costoro, riporterò
qui le storie così come le hanno raccontate e come io, del resto, le
conosco.
Inizierò col ricordare il più giovane partigiano anarchico
carrarino: Goliardo Fiaschi. Egli nacque a Carrara il 21 agosto
1930dal fu Pietro e da Nella Del Vecchio […]
Fu ex partigiano combattente e fu riconosciuto con il numero di
protocollo 014375. Il 9 settembre del 1943 prese parte della lotta
di liberazione della sua città natale aiutando i militi disertori a
scappare e a raccogliere le loro armi che in seguito servirono ad
armare i nuclei partigiani. Questa fu la prima consegna che gli fu
data dagli antifascisti carrarini, in seguito, Fiaschi si dedicò al
trasporto di materiale, tra cui le stesse armi, presso i nascondigli
del Comitato di Liberazione Nazionale.
Dal momento che era un ragazzino, aveva
infatti soltanto tredici anni, Goliardo sostenne per tutto il periodo
della Resistenza di averne quindici.
Favorito dall’ età potè passare più
volte inosservato, sotto il naso dei nazifascisti, con dei piccoli
carretti a mano, ufficialmente carichi di legna e stracci, ma di
fatto ripieni di armi, munizioni, viveri e vestiario. Anche per lui
l’ antifascismo e l’ avversione per i nazisti era una
consuetudine familiare: suo padre infatti militava da tempo tra
coloro che si opponevano al regime. Il ragazzo apprese ben presto a
montare e smontare i moschetti ‘91, ‘38, ed in seguito a sparare
assai bene con gli stessi. La prima volta che cercò di far esplodere
dei colpi da una pistola italiana a tamburo calibro 12, lo fece
impugnandola con due mani, ma questa usci dalle dita e gli lasciò
una mano contusa. La seconda pistola che gli capitò fra le mani fu
una Walter 7,65. quest’ ultima era stata rubata assieme ad una
“machine pistole” da un’ automobile tedesca. La “machine
pistole” non raggiunse mai i magazzini poichè fu scassata dallo
stesso Fiaschi, che volle “ studiarne il funzionamento”.
Goliardo iniziò la sua resistenza a Carrara nella formazione “Gino
Lucetti” e la sua militanza durò fino alla fine del 1944. In quel
periodo, fuoriuscito dalle formazioni partigiane, passò il fronte
tedesco per andare a combattere con gli alleati sul fronte di
Seravezza. Su questo fronte gli alleati erano fermi da tempo ed
allora lo inviarono sul fronte dell’ Abetone, presso la terza
brigata “Costrignano” della divisione Modena.

 

 


Terminata la guerra rientrò
a casa a piedi, un cavallo non glielo vollero dare, e solo nei pressi
dell’ abetone fu caricato a bordo da un’ automobile americana che
lo trasportò fino alla casa del sindaco di Bagni di Lucca. Là
rimase per tre giorni, poi lo stesso comandante americano
proprietario dell’ auto lo condusse a casa. A Carrara trovò la sua
abitazione semi devastata dalle bombe tedesche, ma tutta la famiglia
era salva.
Se si parla
di quel periodo, Goliardo Fiaschi ama ripetere ciò che provò quando
passo il fronte: “ io non passai il fronte, come molti altri, per
salvare la pelle, ma per liberare la mia terra. Mia madre mi
accompagnò fino a una collina piangendo, pregandomi di tornare
indietro. Quando raggiunsi Bergiola trovai gli altri partigiani e con
loro giunsi ad Antona. Qui trovammo una colonna di civili e con loro
passammo il fronte. Quando a Seravezza si fece l’ appello,
risultarono assenti quattordici persone. Io ero partito de Carrara,
nonostante il pianto di mia madre, perchè ero indignato con gli
alleati: questi ultimi infatti non arrivavano mai. La città di
Carrara non aveva più niente di umano, la gente era disperata dalla
fame, dalle rappresaglie dei nazifascisti e dai cannonegiamenti
alleati. Anch’ io prima di partire avevo subito diversi
bombardamenti. Ad Avenza, ad esempio, una volta per lo scoppio di una
bomba, rimasi mezzo sepolto dalla terra. Una seconda volta, mentre
rientravo in città, una cannonata asportò la nuca a una contadina
che stava portando il latte ai più affamati: la soccorsi, ma non c’
era più nulla da fare. Sull’ Abetone, comunque,
gli alleati mi diedero anche delle armi: uno Sten e delle bombe Sipe.
Nel combattimento di monta Lancio, operazione che si compì in pieno
giorno contro le fortificazioni tedesche, nonostante l’ incessante
fuoco avversario, arrivai secondo sulla cima del monte dietro al mio
comandante Filippo. Dopo quella battaglia, il giorno successivo,
iniziammo la nostra marcia di liberazione in direzione di Fanano. La
marcia forzata continuò e liberammo Sestola, Pavullo, Sassuolo ed
infine Modena. Questa fase finale non fu facile, ma ricca di insidie.
Le strade e i campi erano minati e i pochi tedeschi rimasti facevano
una resistenza accanita. Ricordo che, non so se a Sestola o a Marano,
i nazisti stavano facendo una carneficina, l’ ospedale stava
bruciando con tutti i feriti dentro, e noi sentivamo a distanza l’
odore della carne umana bruciata.
Alla
fine a Modena sfilammo per le strade della città sotto una pioggia
di fiori. Io ero in testa alla mia brigata e ne ero orgoglioso.

Ero molto contento perchè la guerra era ormai finita; perchè i
nazifascisti erano stati sconfitti, ma ero altrettanto in pena poichè
non avevo notizie della mia famiglia e della mia città”.

Il
giovane attivista anarchico, dopo aver dato un esempio memorabile e
degno dei più alti valori della Resistenza, terminata la lotta
partigiana,decise, animato dal suo spirito rivoluzionario e
combattivo, di continuare la sua lotta contro il fascismo
internazionale.
Nell’ agosto
del 1957 raggiunse Tolouse in Francia e qui conobbe Fazerias, noto
guerrigliero espropriatore anarchico.
Era il 14
D’ agosto e Fazerias aveva raggiunto la città delle violette per
cambiare del denaro francese con valuta spagnola. Denaro che gli
sarebbe servito pochi giorni dopo per raggiungere la Spagna e mettere
in atto un attentato contro Franco. […]

Il
29 di agosto, Fazerias disse a Goliardo di recarsi nel loro rifugio
sul monte Tibidabo e di aspettarlo là, egli sarebbe tornato o a
mezzanotte del 29 o a mezzogiorno del giorno dopo. Fazerias
inoltre ingiunse al compagno di ritornare in Francia se non l’
avesse visto arrivare al secondo appuntamento.
Goliardo, salutato l’ amico, si incamminò verso il
rifugio dopo aver riempito dua bottiglie di acqua. Ad un certo punto
fu circondato da sei individui armati di mitra che gli intimarono l’
alt. Il compagno Fiaschi, non potendosi difendere, avendo le mani
occupate, da buon toscano, esplose con una serie di “insulti e
madonne” in italiano. I poliziotti, udendolo bestemmiare in
italiano, uscirono con la frase: “ecco l’ italiano, amico di
Fazerias”.
Interrogato, lì per li, L’ anarchico toscano disse di non
sapere nulla di ciò che gli chiedevano e tantomeno di dove fosse
andato Fazerias. Gli sbirri lo portarono subito in caserma e, dal
momento che non riuscivano a farsi capire in spagnolo, si misero alla
ricerca di un interprete. Di lì a poco, ricuperarono un maitre d’
hotel di carrara che lavorava a Barcellona, il quale si prestò a
tradurre l’ interrogatorio. “ La polizia non aveva ordini di far
prigionieri, se tu non avessi parlato in italiano – gli disse il
maitre d’ hotel – adesso saresti già morto”.
[ Fiaschi aveva organizzato l’
attentato a Franco con Fazerias e Augustin n.d.r. ] .
Fu lì a quell’ ora, che venne a
sapere che Fazerias era stato ucciso a colpi di mitra dalla polizia.
[…]
Il 12 agosto del 1958 il
tribunale speciale di Barcellona giudicò i due.

L’
udienza durò un’ ora e, come d’ abitudine in Spagna, la sentenza
fu comunicata ai due imputati solo tre giorni dopo. Goliardo Fiaschi
fu condannato a vent’ anni e ad un giorno di prigione, Augustin a
ventuno anni e quattro mesi. Goliardo, durante il processo si
comportò in modo esemplare; chiese pochi minuti per parlare, il che
straordinariamente gli fu concesso. In tal modo potè difendere,
davanti ai giudici franchisti le qualità di Fazerias: lo chiamò
lottatore per la libertà e ne esaltò la figura di rivoluzionario.
Dopo otto anni di detenzione, l’
anarchico carrarino fu regalato alla magistratura italiana. Il
compagno Fiaschi venne estradato in Italia poiché la nostra
magistratura e la nostra polizia avevano pensato bene di attribuirgli
una serie di rapine avvenute in Italia dopo la resistenza, gli autori
delle quali erano rimasti ignoti.
Le forze reazionarie italiane lo accolsero
in Italia al grido di: “Arriva il capo degli anarchici”.
Anche questa volta, va detto per inciso,
i poliziotti, i magistrati, si rifiutarono di capire che presso gli
anarchici non esiste né la necessità né il bisogno di un capo.
Giunto in Italia, Goliardo fu
perseguitato dalla magistratura e perseguitato (innocente) ad essere
seppellito in una galera per anni e anni. Fu così eliminato dalla
vita civile, dalla militanza e dalla vicinanza dei suoi compagni di
fede. Goliardo Fiaschi è uscito dalla prigione nel marzo del 1974
all’ età di 44 anni, con la grazia. La grazia, naturalmente, gli
fu concessa quasi alla fine della condanna per l’ intervento dei
compagni e di alcuni (pochi) uomini politici che hanno veramente
provato il fascismo in galera.